La nausea di J. P. Sartre

Pubblicato nel 1938, La nausea, romanzo manifesto del filosofo J. P. Sartre, è un testo intollerabile. Per questo riuscito, fascinoso nella sua perdita di pazienza nei confronti dell’ordinario. Uno stile per certi versi neoclassico, composto, issato su una voce narrante autodiegetica: il protagonista racconta in prima persona, il suo punto di vista è delirante, ma non per questo inattendibile. Il flusso di coscienza è pervasivo, ma non frammentario: il quadro narrativo è saldo, nonostante il dramma.






Cosa generi nel protagonista de La nausea, Antoine Roquentine, quel molliccio e pervasivo stato di disgusto per le cose del mondo, è   qualcosa di assai simile all’ idiozia e all’ ottuso, categorie esistenziali assai note nella letteratura occidentale contemporanea.


"Ed ora lo so: io esisto - il mondo esiste - ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. È strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa."

Roquentin è uno scrittore di cose del passato, che da Parigi si reca nel piccolo paese di Bouville, per portare a termine il suo libro di storia. La ricerca procede tra stereotipi didascalici e consapevolezze paradossalmente decostruttive: la parola decade, la pagina si oscura, il passato si fa inconoscibile.

 Un ostacolo sordo sale con una misura intollerabile: la nausea che sale quando gli oggetti del mondo, dalla sua mano al quadro di un museo, dai cappelli borghesi agli alberi chiomati, si mettono a esistere senza senso, non chiamati da nessuno, eppure disgustosamente presenti. La strisciata con cui le cose si presentano all’ uomo, infatti, è  una salivazione amara, eccessiva, nauseabonda: c’è incomprensione fra l’ uomo e le cose, in quanto lo sforzo incessante di decodifica, interpretazione, riporto e riattivazione da parte della coscienza, si qualifica proprio a partire dal suo essere mancante, una intenzione di significanza che declina un costante fallimento; le cose non si lasciano significare, non si lasciano dire, e cadono in una rete di opaca visibilità, nella loro pretesa di “voler esistere con insistenza”.

Esiste solo chi insiste: chi e cosa si impone in una violenta e perfetta gratuita dell’apparenza. Ma non basta esistere, se non c’è nessuno ad amare le cose insistenti; se nessuno le traduce esse riflettono unicamente una condizione monolitica di casualità orribile. È così che tutto, a Bouville, diventa casuale, di una convivenza ottusa che cede il posto a una terribile connivenza, quella del non sense.  La domenica affollata da borghesi cartonati, il museo di storia dove gli antenati trasfigurano in un residuo di tempo irreversibile, via Tournebride così mascherata da vita da sembrare insopportabile, il caffè Mobly dove il protagonista si reca nelle sue ore libere, è un covo di ipocrisie e fallimenti umani.  È un dramma per Roquentine, che per professione ricostruisce il passato: scoprire progressivamente che l’operazione di ripristino appare del tutto priva di senso dal momento che ciò che non insiste, e il passato ormai non può più farlo, non esiste.

 Del tutto simile a uno stato di malinconia, e questo il titolo originario del romanzo, Melancholia, preso in prestito dall’ opera di Durher, l’esistenza dei personaggi e di Roquentin, ombreggia nell’insignificanza. Tutto appare di troppo, e la scoperta del se come un essere di troppo sconvolge Roquentin e tutto il suo complesso di relazioni con gli altri: ogni rapporto umano è destinato a macchiarsi di nausea. È la stessa Bouville a sfiorire nella sua meschina ordinaria vita di provincia. Forse la musica, forse la letteratura, forse la scrittura, possono salvare Roquentin. Ma il lettore, travolto dal suo flusso di coscienza che non lascia speranze, per un attimo attende quell’incontro, fra Roquentin e la sua antica amante, Anne, come l’ultimo approdo prima di un naufragio. Le pagine scorrono in attesa di quell’ ultima possibilità di rianimare un cuore svigorito. Morto lo scrittore, il cittadino borghese, l’amico civilizzato, non resta che far resuscitare un amante. Ma Anne non è dissimile da un cappello borghese, nero e sformato, obbediente all’aria malinconica di una qualunque domenica decadente…
Valeria Francese

Autore: Valeria Francese

Valeria Francese nasce a Salerno nel 1979, ha conseguito nel 2003 la laurea in Filosofia con una tesi in Estetica sulla Poetica dello sguardo nella letteratura e nelle arti contemporanee. Nella sua città insegna filosofia negli istituti superiori. Partecipa da sempre a numerosi concorsi di narrativa, ha scritto sceneggiature per il teatro, una piccola meravigliosa esperienza cinematrografica. Nelle ultime esperienze artistiche, una collaborazione per una mostra di fotopoesia, dove la luce e il verso hanno trovato la loro, splendida ed epifanica, parola comune. Da allora, la poesia é diventata la sua Casa Madre. Qualche volta ottiene seri riconoscimenti, menzioni e leggere pubblicazioni, altre volte, come capita a tutti quelli che amano scrivere, un robusto silenzio, quanto mai evocativo di altro talento come quello della pazienza, dell'attesa e della costruzione invisibile. Correttrice di bozze e in procinto di terminare un master in editing e scrittura creativa, sta svolgendo il biennio di tirocinio per diventare giornalista pubblicista. Insomma se nella vita le fosse concesso, sarebbe Scrittura Solo.

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