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Parte la nuova rubrica Recensioni

Parte una nuova rubrica sul mio blog personale: le recensioni dei vostri scritti!

 

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Suite francese di Irene Nermirosky

Nel sangue di una scrittrice isrealita russa, di acquisita nazionalità francese, ebrea convertita al cattolicesimo, sterminata in un lager neppure un anno dopo aver scritto Suite francese, veicolano messaggi genetici che non possono tacere. La letteratura della Nemirovsky è un sorprendente testamento involontario, crocevia narrativo di direzioni culturali che le scorrono nel corpo. Forse sarà per la sua involontaria dimensione attendista dell’ebreo errante o per l’inconscia genesi ortodossa che non accetta sconti e indulgenze, e finanche per la conversione al cattolicesimo dovuta alle intemperie storiche di un’epoca ferocemente antisemita, sarà insomma per l’indecisione cromatica con cui colorare la fissazione di un qualunque dogma, che il romanzo di Irene diviene una squisita satira che prende di mira tutti. O almeno quei tutti, che alla fine sono davvero i tutti, che ritengono che la guerra abbia le sue ragioni, i suoi sinistri uffici di collocamento nei quali posizionare, come su uno scacchiere pronto a saltare in aria, ora gli innocenti ora i colpevoli.

Irène Némirovsky

 

 

In Suite francese tutto appare meravigliosamente sciocco, persino la morte, il perdono, la misericordia, la solidarietà civile: valori che la guerra deturpa o imbelletta con la medesima facile vanesia. La ferocia di cui si macchia sempre l’ inutilità del vivere umano, è la stessa con la quale viene issato sul capo di un’affranta vedova,  un cappellino spiumacciato e con una rosa infilzata su un fil di ferro: questa l’immagine che più mi ha turbato per il fascinoso vuoto a cui rimanda, neppure forse fra le più potenti che  costellano la carrellata di atti e sequenze perbeniste con cui si presenta la società francese, antisemita ma antigermanica, liberale e tremendamente bigotta, durante l’occupazione tedesca del secondo conflitto mondiale. La suite è una varietà di cianfrusaglie borghesi e insieme massoniche, che la guerra dovrebbe seppellire ma che per qualche ragione si ostina a voler sopravvivere, quasi con l’arroganza che incarna sempre il relitto nel suo imporsi come superstite del crimine: le porcellane di Sèvres, i volumi di libri da non lasciare al nemico al costo della propria pelle, le ciprie e i corredi di lenzuola smerigliate nei grandi e silenti armadi; persino una dentiera, la dentiera del vecchio nonno di famiglia da recuperare  a tutti i costi all’interno di una delle case degli occupati:  gli oggetti di chi si appresta a diventare un perduto o un cadavere, prendono vita propria in una danza di macabre resistenze, aleggiando sulle vite dei francesi, di chi collabora e di chi si ribella con una vocazione bolscevica assai poco convincente.  Suite francese è una fenomenologia di famiglie occupate dal piede tedesco in una Francia degli anni quaranta, dai Pericand ai Perrin, dai Monmortre ai Labarie, dai Michaud alle signore Angellier: una narrazione che ironica e istrionica si diverte a sostare presso saghe famigliari dove il dolore per il lutto sembra liquefarsi in una compiaciuta memoria  collettiva che, dalla sconfitta di Sedan contro i prussiani fino allo sfondamento della mitologica linea Maginot, si installa al posto degli individui, dei loro fegati, prendendo posto tra cuori e polmoni; una ideologia dello sconfitto che trapianta come nuovo organo una ragione provvidenzialistica e un senso del buon gusto che al gusto finisce per aggiungervi del grottesco.

La verità è che “la logica dell’alveare” con cui si inneggia alla difesa del proprio credo nazionale, è la bugia peggiore che gli uomini possano raccontarsi su questa terra: Irene lo tratteggia con una penna micidiale e delicata, mostrando senza remore che non c’è vera sofferenza in nessuno degli anfratti più reconditi dei tanti e numerosi personaggi: la fuga, il nascondiglio, l’omicidio, l’attesa, sono luoghi con cui inscenare una farsa mentre tutti sostano presso un’azione che diventa una scusa – o il torto – per avere ragione ed essere innocenti. Così francesi e tedeschi, per una volta conviventi sul suolo occupato, finiscono con il somigliarsi diventando conniventi di un unico orrore che resta sullo sfondo, quasi incompreso. L’invasore abita le case degli occupati e sembra essere davvero nel posto giusto, quasi più clemente, quasi più gentile, quasi più vittima dell’occupato, in una apologia dell’assente, del fantasma che diviene chiunque non sia ancora morto ma non per questo sia più legittimo residente di questa terra.

“Il soldato non ha età

e si fa contemporaneo delle cose più antiche”

La guerra disorienta il discrimine e rivela il peggiore dei crimini: a morire sono tutti, per mano di tutti. Verrebbe da commentare così questo immenso romanzo che prende in giro vinti e vincitori, debolezze femminili e stereotipi maschili, divergenze sociali e credi religiosi. Tutto mescolato in brodo ancestrale dove Napoleone e Hitler non sono che le dittature di uno stesso governo, quello dell’uomo che smette di essere tra gli uomini.  La festa dei soldati tedeschi nel castello dei visconti, i riflessi dei loro speroni e del biondo metallico dei loro capelli; contrapposti ad essi le pretestuose e brune sensualità delle donne francesi e gli irosi rancori dei loro mariti, le suocere invidiose, i figli perduti. Una galleria umana di tragiche ironie. Il tutto su uno sfondo magnifico che sono i paesaggi: accompagna ogni sentire e vicenda umana, una natura docile e vitale, anche quando la zolla è seppellita dalla neve o la neve richiamerà l’azzurrato delle colonie di nuvole, fiori e piante e persino gli insetti e ogni genere di creatura che popoli questo inferno di terra, ci ricorda la grazia dell’esistente, una grazia che la penna briosa e impressionista di una scrittrice formidabile ha consacrato per sempre, essa ed essa sola, come la vera innocente del tempo.

Irene morirà in un campo di concentramento un anno dopo.  E questo romanzo fu ciò che, amato e protetto, le sue figlie diedero alle stampe.

Oggi, che la guerra è ancora più disgraziata del solito sempre.

 

 

Un cuore così bianco di J.Marias

 

Un cuore così bianco di J.Marias

J. Marias, Un cuore così bianco
"Crediamo di conoscere chi ci vive accanto, ma il tempo porta con sé molte più incognite che certezze, e in proporzione si sa sempre di meno, con il tempo si allarga la zona d'ombra." 
Una giovane sposa, appena tornata dal suo viaggio di nozze, cerca qualcosa di bianco, sotto la sua camicetta.  
Punta al suo cuore, eccolo, davanti allo specchio del bagno, e gli spara, proprio lì, mentre tutti gli altri, e Ranz, suo marito, sono seduti a tavola, ignari del dramma appena compiuto, nella sala da pranzo della casa familiare.
E non è più bianco, il suo cuore crivellato, come lei stessa non è più innocente. Ranz lo sa bene ma tace: quel sangue è la restituzione del biglietto; sua moglie ha tradito il patto, rifiutandosi di essere testimone di quell'atrocità che solo qualche giorno prima lui le aveva confessato, come donato in un corredo nuziale avvelenato. 
Certe doti sono insostenibili, non si lasciano riporre nel cassetto della biancheria antica né conservarsi nelle foto della memoria, non possono essere esposte come si fa con i souvenir di un viaggio o come privilegi ereditati di cui ci si vanta per generazioni: "Avrei potuto tacere e tacere per sempre, ma a volte si crede di amare di più se si racconta un segreto" dice Ranz e invece, proprio le confessioni indicibili sono condanne inferte in nome di una ipocrita "maggiore lealtà", che certe mogli dal cuore bianco traghettano con sé fin nel sottosuolo.
Gli anni prendono a passare nella vita di Ranz e "in proporzione si sa sempre meno", e l'uomo diventa il simulacro di nascondimenti per sé e per gli altri.
 "E se hai dei segreti tu non dirglieli", suggerisce a Juan, il figlio avuto da seconde nozze, in un passaggio di consegne del silenzio opportuno. Juan, il figlio erede del silenzio, che ha appena sposato Luisa, comincia presto a fare i conti con la questione delle confessioni e l'ardimentosa impresa della comunicazione nella vita ordinaria del matrimonio.
 Molto presto infatti anche Juan scopre che la verità, in amore, ha un cuore terribile che cerca vicario, il sostituto della sua faccia, con cui andare in giro a raccogliere consensi, adattamenti, finzioni.
 E che proprio il matrimonio, se non si sorveglia attentamente, se non si resta  vigili ad attenzionare il non detto, diviene il luogo del disagio, nel quale il chi dell'individualità scompare in nome di un giano bifronte che è la coppia, tanto sconosciuta a se stessa e priva di memoria storica. 
Nascono così i luoghi dell'assalto al cuore tremendo della verità, disseminati per tutto il romanzo lungo le soglie, stanze al buio, paraventi, retri delle porte da cui provengono bisbiglii, camere secondarie della casa principale, le suite d'albergo, dove si resta a sussurrare le cose, lontano dalle pareti domestiche. 
Sono gli spazi privilegiati dove avviene l'equivoco, il suggerimento di una ipotesi, l'accenno di una soluzione.



Copertina del Libro Edizione Et Scrittori
Apparentemente la trama del romanzo sembra occuparsi di loro due, di 
Juan e Luisa, del loro matrimonio giovane e già così precario e sullo sfondo l'inconfessabile segreto di Ranz, ma Marias non è uno scrittore dall'intreccio lineare, e le vicende richiamano quadri temporali e riflessioni esistenziali che sono fuori tempo e cornice narrativa. 
Il matrimonio dei giovani arranca nei pressi del rispettivo congiunto che sempre arriva alle sue spalle "premuroso ma in ritardo", perché mai le cose giungono chiare, ma sempre lateralmente deviate, magari sussurrate all'orecchio, paroline sgranate che scivolano di spalle o sul lungo declino dei colli, di quelle nuche tese che diventano luogo della parola mal consegnata. Sono due traduttori e interpreti di professione, per appunto, Juan e Luisa, lavorano sui discorsi e le presenze degli altri, dei politici, degli intellettuali; ma è nel congresso del loro amore che essi compiono i peggiori lavori di resa linguistica: abituati all'ascolto che non guarda, a essere testimoni rapidi ma non empatici, rimandano le cose come dal fondo di una conchiglia: alterate, contaminate. 
 Una metafora della comunicazione inquinata che trova nel romanzo lo spazio del retroverso, della parola consegnata, tradotta o tradita. 
Non è un caso che le parole chiave più ricorrenti nel testo siano: tradire, tradurre, contagiare, testimone, in una gerarchia di azioni ed emozioni consegnate, sempre mancate o tradite, all' altro che da spettatore diviene attore dell' assente. Tra le tematiche più note della poetica di Marias, il silenzio nel segreto, le connessioni che risuonano a distanza di tempo e oltre la morte, la morte stessa e il cuore bianco dei vivi non più bianchi nè vivi, le soglie, gli usci sui quali si decide se la vita è ingresso o dipartita, e i balconi che danno le spalle alla mortifera camera della verità. 
Ma i tempi esigono ulteriori confessioni, e questo avviene perchè mai ricadano sui figli le colpe dei padri. O forse perché i padri in fondo cercano anch'essi la loro redenzione, dopo che il mondo ha perpetrato le narrazioni di tutti, tranne che le loro, attraverso parole e repliche deformate. Ora tocca proprio a loro, per salvare i figli dalla logica della soglia e dell'incomunicabilità, saper dire, saper non tradire.



La lezione di Marias non è ambigua: le cose, quelle fatte, quelle successe, siano dette, siano sempre consegnate ai testimoni sani, ai cuori bianchi, a quelli coraggiosi, a chi sappia accogliere e non condannare e non condannarsi alla punizione eterna. A chi sa anche, per sopravvivere, non farci più caso.
"Pochi sono in grado di non far loro caso". 
Conta, in questo caso, non contare mai più.

 

 

Nella battaglia domani pensa a me di J.Marias

Nella Battaglia domani pensa a me
J.Marias

"Nessuno pensa mai che potrebbe ritrovarsi con una morta tra le braccia e non rivedere più il viso di cui ricorda il nome". 
Il romanzo di Marias, Nella battaglia domani pensa a me, riecheggia di istantanee dialettiche come questa, incastonate in un dipinto di scene mitologiche, dove gli eroi sono i morti, e i vivi restano a contemplare le ultime luci delle loro scie. 
Questa non è infatti la storia di chi muore ma di chi sopravvive, con in mano i fili non ancora interrotti di quelle storie: perché la morte, nella sua subitanea irrimediabilità, è sempre, come dice lo scrittore madrileno, "inopportuna". 
Sarà perché ha a che fare con l'irreversibilità del tempo, con i contesti inaspettati oppure con i segreti che pungolano i vivi e li proiettano in vere e proprie indagini a ritroso, in quella che è una ricostruzione quasi archetipa dei giorni del morto.
 Cosa fare quando ci si trova tra le braccia un'amante appena
 s-conosciuta, che muore, prima ancora che il mondo a lei noto dei suoi affetti lo venga a scoprire? Marta Tellez è il nome della donna che gli spira tra le braccia e che lui, Victor, ha appena fatto in tempo a spogliare. Non sa molto altro di lei, se non quello che gli ha suggerito un reggiseno slacciato ma attaccato ancora al corpo come in una specie di adesione disperata all'ultimo istante di vita. 
Sa poi che ha un marito ora a Londra per affari, un bimbo di due anni, Eugenio, che dorme nella stanza a fianco, e sa quello che il nastro di una segreteria telefonica tradisce: l'esistenza di un altro amante che nelle sue ultime ore di vita la reclama, un paio di amici con i quali sarebbe avvenuta una cena da lì a qualche ora, un vecchio padre, il vecchio Tellez, che cerca sua figlia con un vago presentimento che appartiene solo ai vivi - e ai padri -, e su quel nastro c'è anche lui, proprio lui, Victor, lo sconosciuto di qualche giorno prima, che ora non è più sconosciuto, perché ora, pur non sapendo nulla di Marta Tellez, ha condiviso la cosa più assurda e intima a cui un individuo possa partecipare, la morte intima e tremendamente privata di un'amante appena incontrata. 
Ma a fare tenerezza, a suscitare pietà,  non sono i morti, ed è questo  il tema principale del romanzo; sono proprio i vivi che con il loro lutto, a volte clandestino, devono essere compianti nella loro incredulità dinanzi a quei fili non ancora interrotti: sono i fili estratti dalle macerie umane, le traiettorie tragiche che Victor ora attraversa in un estremo tentativo di far riposare i morti.
Scuotono di malinconia i più fragili tra i vivi, i vecchi e i bambini. Perché in qualche modo né gli uni né gli altri si rassegnano alla morte o sanno riconoscerla: i primi, nella loro coriacea convinzione di essere destinati alla scomparsa per sempre mai dopo i loro figli, e i secondi, i bambini che scacciano il senso del mai più con l'innocente vento dei loro sogni.

Diego De Silva e «Domani nella battaglia pensa a me»

Tra i vecchi, il vecchio padre Tellez che seppellisce figli e una moglie senza soluzione di continuità; il Solo, un venerando ministro madrileno la cui solitudine si registra nella sua incapacità di scrivere da solo i propri discorsi pubblici; Enrico V di Shakespeare, che muore dannato nel tradimento degli affetti, citato nel titolo del romanzo e in quella trama che è il campo ordito dalla battaglia estrema, la battaglia della colpa, della solitudine e delle ombre.
E poi ci sono loro, gli infanti, come il piccolo Eugenio che si addormenta nella stanza accanto, ignaro degli ultimi istanti della mamma Marta che di là, con il reggiseno ancora attaccato al cuore, chiude gli occhi per sempre; e il bambino che non può sapere, continua a guardar volare gli aeroplanini nel circuito aereo del suo lettino e chissà, chissà se vorrebbe vedere  la mamma proprio lì, alla guida di un veicolo o  semplice passeggera a ridosso delle ali sonore. 
I bambini e i vecchi alle prese con il dramma dei fili, le righe sottili e insostenibili delle cose appese, che ciondolano e tremano dinanzi ai vettori dei giorni che, incuranti di chi si è assentato per sempre, continuano a tuonare in molteplici direzioni, ad alimentare le vicende, a ricostruire i fatti senza più chi li ha fatti.
Victor sente che tra le mani non gli è morta solo una donna, ma il senso stesso della vita che reclama spiegazioni. E si mette in moto per riannodare i fili interrotti degli altri e rimettere sui piedi le scene capovolte, i segreti di tutti, i silenzi che fanno da contrappeso alle morti assurde. Cosa deve rintracciare Victor? Deve aprire il sipario su quel mondo dei segreti che la segreteria telefonica ha appena tratteggiato: Edoardo, il marito assente, Vincent e sua moglie Ines, la strana coppia di amici di Marta, la famiglia di quest'ultima che come gitani tristi di un circo in disuso, continua a vivere in uno stato di "incantamento", che è quello stato, dice Marias, indotto dai fantasmi quando si dibattono per dissolversi, e invece, proprio loro tornano nei luoghi dove sono stati dei vivi: lì lasciano, appunto, dei fili e dei legami invisibili, che non sono altro che la condanna del loro ricordo.
Marias è uno scrittore che non trascura mai, nei suoi romanzi che hanno tutti le sembianze di sequenze cinematografiche, il senso stesso della domanda incalzante e quasi materica: il gusto della retrospettiva, quei sussurri nelle orecchie o la ricorrente scena degli abbracci che arrivano alle spalle, le camminate sulle nuche degli amanti, tutto a dire dell'assenza dello sguardo del testimone che arriva sempre nel buio, nella non visibilità dei segreti; Victor è un testimone, quello vicario dell'ultimo sguardo sui morti e quello responsabile della vita dei vivi.
Così Victor è diventato anche lui un filo, costretto a riannodarsi con quello degli altri che restano per tessere la trama del vivo: grazie all'amico Ruiberriz de Torres, trova lavoro presso il vecchio Juan Tellez, padre di Marta, che è il dipendente di un alto funzionario ministeriale denominato " il Solo". In questo modo riesce ad avvicinarsi alla famiglia di Marta e in particolar modo alla sorella Luisa e al marito Edoardo, svelando a poco a poco i segreti ormeggiati presso la tragica morte della giovane donna. La morte lascia infatti tutti nell' incomprensione ma ciascuno ha il suo segreto da mantenere, come il marito Edoardo, mascherato da malcelato senso di colpa per ciò che, nella stessa notte della morte della moglie, ha compiuto di efferato. Questa non è solo la storia di una morte, ma è il luogo
 dell'incantamento di tutti i segreti. 
Nessuno dei personaggi risulta trasparente e limpido a se stesso: entrano tutti in battaglia, come si allude nel titolo del romanzo, una citazione del dramma Enrico V di Shakespeare, un campo di ombre sfuggenti "avvicinati in modo transitorio da quel qualcuno che li lascia dietro di se". Ciascuno di loro diventa il luogo del peso del morto che erompe dentro il petto finche il morto stesso non avrà pace nè giustizia.
È uno stile micidiale quello di Marias, perché serve una penna lucida e tenera, per descrivere il flusso di una coscienza interrotta, rimasta viva a spiegarsi e a perdonarsi la morte, quale è quella di tutti i personaggi del romanzo: la punteggiatura si allontana, i punti fermi non fermano la questione e le virgole non invitano al riposo ma accelerano una scrittura ricorsiva, che fa paio con la ricerca incessante, multiversum, delle ragioni possibili. Vuol dire che Marias apre scenari alternativi e fiordi di possibilità mediante uno stile che si nutre di spirali: ogni affermazione precede il suo gemellaggio con il dubbio o l'idea del diverso. L'affanno del lettore non è solo una questione di occhio che deve seguire il ritmo della penna ma è soprattutto la cifra emotiva di chi sospende la certezza di tutto ciò che sa del mondo e si ritrova a dubitare di ogni parte del cielo.
La verità delle cose, infatti, è sempre altrove, alloggia nelle teste di chi resta come semplice miraggio, e il tempo di ciascuno si fa inutile come neve scivolosa.
 Sfumiamo, dice Marias, tutti verso un lento transitare che sia anche solo su una schiena, una retrospettiva o sul rovescio del tempo. E così, senza scelta, senza altra traiettoria che quella della perdita, perché è assurdo dover ricordare chi si è conosciuto.
Potente le ultime parole, un congedo di senso, un riposo del filo:
"Addio, Ricordi".
L'ultima volta che vale la pena di richiamarli ancora in vita, questi strani, inopportuni e incomprensibili morti.

Delitto e Castigo di F. Dostoevskij

 

 

Delitto e Castigo

Pubblicato nel 1866, due anni dopo dunque  Memorie del Sottosuolo, lo scritto di Dostoevskij che apre la scena all’oltruomo. Proprio Memorie del Sottosuolo  potrebbe quasi fungere da suo sottotitolo, se non fosse per la geolocalizzazione del tugurio abitato da Raskolnikov, protagonista di Delitto e Castigo, che si trova invece, in cima a una mansarda arroccata. Superficie e abisso, sottosuolo e altezza, i poli dialettici di un romanzo che già nel titolo non si esime dalla medesima contraddizione in termini: Delitto e Castigo. Poiché l’uno non regge il peso della propria esistenza senza il richiamo doloroso dell’altro.

La vecchia usuraia, una scure, il pretesto di una teoria. 

Significa che commettere un reato criminale, come quello di spaccare la testa con una scure a una vecchia e maligna usuraia, ha il suo contrappeso con un castigo naturale  di natura intima e privata. La trama è gialla solo per il gusto di rintracciare un genere antilitteram. In realtà sappiamo subito chi ha commesso il delitto, attraverso le intenzioni – e le infezioni – che animano la malattia del giovane Raskolnikov: lui ha ucciso la vecchia usuraia, simbolo del male di una società protocapitalista che in nome del progresso schiaccia i miserabili. E tutto sembra rispondere a una teoria, dove “il tutto sta per una teoria”, sta in piedi cioè per la ragione del riscatto, per l’equilibrio necessario di una bilancia sociale. Quanto pesa la vita di una vecchia usuraia al cospetto di centinaia di vite innocenti? Il problema è chiaramente di natura filosofica: liberta dell’uomo e la questione del male, capisaldi chiasmatici di una personalità cristiana tipicamente europea. Quanta pena è data all’uomo che schiacciato dal dono della liberta, se ne fa maldestre interprete? Un ermeneuta allo sbaraglio che diffida del limite e si pronuncia a favore di quella fetta di umanità “straordinaria” che è capace di oltrepassare il limite e abbracciare una deità tutta umana, tutta illimitata, che alla morte di Dio, risponde con il diritto sulla vita degli uomini, da parte degli uomini stessi. Sullo sfondo c’è la questione della povertà, della classe dei miserabili, dell’ indigenza che obbliga Dunia, sorella di Raskolnikov, a subire le angherie del pedofilo Svidrigalof prima e poi l’imposizione di un matrimonio con l’arrogante Luscin, espressione di una società di arrivisti, dei nuovi funzionari borghesi dopo la sclerotizzazione dei nobili di corte; quella ingiustizia sociale che costringe la piccola Sonia – che tanto ruolo avrà, in un dimensione oserei dire “mariana” nella seconda parte del Romanzo – a prostituirsi per adempiere alle volontà del crudele padre Marmeladof. È la stessa oppressione sociale che grava sul cappello del giovane Raskolnikov, pieno di buchi, toppe e cadute di gravità, che rende insopportabile a se stesso lo sguardo critico degli altri. È la stessa oppressione sociale che viene sognata dal piccolo Raskolnikov nell’assistere impotente all’uccisione di una innocente cavalla. Dinanzi al male, il delitto di una vecchia non sarà poi una scusa, per cui richiedere riscatto al non senso di questo esistenza. Ma delitto e castigo, appunto, non sono solo i termini di una questione giuridica, perché se così fosse, l’arresto di Raskolnikov e la sua resa dinanzi alla legge, non sarebbe che l’epilogo scontato del romanzo. C’è di più. Sta nel nome Raskolnikov che vuol dire scisma. C’è il fatto che delitto e castigo stanno tra di loro come i termini gelosia di una dicotomia tossica: bisogna salvarsi dalla propria illimitata libertà, e il castigo non è che l’atto di una confessione, di una apertura di coscienza che non sia solo la risoluzione di una indagine poliziesca. Il giudice istruttore, tale Porfirio Petrovitc, conquista le nostre simpatie, non solo per il suo viso grassoccio e aperto, ma perché quando sospetta di Raskolnikov, lo indaga, lo interroga, lo fa dal sottosuolo fino all’altezza, lo fa cioè come un prete che con il suo scandaglio riporti a quota ossigeno naturale l’inabissamento del colpevole. Ebbene sì, la folla degli ultimi di Pietroburgo non può trovare salvezza nella punzione, ma nella resurrezione . E quest’ultima negli ultimi capitoli del romanzo è un atto di ritardo, un’attesa necessaria che va compiuta solo in seguito alla perdizione. Ecco Lazzaro uscire fuori dal greto della colpa, offerto da una lettrice di eccezione: una prostituta, Sonia, di cui Raskolnikov si innamora, offre al reo amato la certezza della pena e la guarigione dell’eternità: la morale è insuperabile, lo sfondo resta ancora e sempre uno sfondo morale, la liberta illimitata è un castigo ben oltre la condanna.  Il giallo si è fatto evangelico e l’eternità che la giovane Sonia prospetta al prigionierio omicida è finalmente lo squarcio che si apre dall’interno di una stanza “buia e piena di ragni”. Potrebbe deludere, e ammetto che deluda, un deus ex machina così femminile, così tenero e se vogliamo ovvio. Ma il finale di Delitto e Castigo è un invito a considerare ogni caduta il rovescio verticale dell’altezza. Letto in senso dinamico, il finale sorprende, prelude, anticipa. Poco o niente dice, infatti, della fine… Perché la fine stessa è un fatto che non si dice. E non si premedita ma solo si aspetta in un umano ordinario ritardo.

 

La nausea di J. P. Sartre

Pubblicato nel 1938, La nausea, romanzo manifesto del filosofo J. P. Sartre, è un testo intollerabile. Per questo riuscito, fascinoso nella sua perdita di pazienza nei confronti dell’ordinario. Uno stile per certi versi neoclassico, composto, issato su una voce narrante autodiegetica: il protagonista racconta in prima persona, il suo punto di vista è delirante, ma non per questo inattendibile. Il flusso di coscienza è pervasivo, ma non frammentario: il quadro narrativo è saldo, nonostante il dramma.






Cosa generi nel protagonista de La nausea, Antoine Roquentine, quel molliccio e pervasivo stato di disgusto per le cose del mondo, è   qualcosa di assai simile all’ idiozia e all’ ottuso, categorie esistenziali assai note nella letteratura occidentale contemporanea.


"Ed ora lo so: io esisto - il mondo esiste - ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. È strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa."

Roquentin è uno scrittore di cose del passato, che da Parigi si reca nel piccolo paese di Bouville, per portare a termine il suo libro di storia. La ricerca procede tra stereotipi didascalici e consapevolezze paradossalmente decostruttive: la parola decade, la pagina si oscura, il passato si fa inconoscibile.

 Un ostacolo sordo sale con una misura intollerabile: la nausea che sale quando gli oggetti del mondo, dalla sua mano al quadro di un museo, dai cappelli borghesi agli alberi chiomati, si mettono a esistere senza senso, non chiamati da nessuno, eppure disgustosamente presenti. La strisciata con cui le cose si presentano all’ uomo, infatti, è  una salivazione amara, eccessiva, nauseabonda: c’è incomprensione fra l’ uomo e le cose, in quanto lo sforzo incessante di decodifica, interpretazione, riporto e riattivazione da parte della coscienza, si qualifica proprio a partire dal suo essere mancante, una intenzione di significanza che declina un costante fallimento; le cose non si lasciano significare, non si lasciano dire, e cadono in una rete di opaca visibilità, nella loro pretesa di “voler esistere con insistenza”.

Esiste solo chi insiste: chi e cosa si impone in una violenta e perfetta gratuita dell’apparenza. Ma non basta esistere, se non c’è nessuno ad amare le cose insistenti; se nessuno le traduce esse riflettono unicamente una condizione monolitica di casualità orribile. È così che tutto, a Bouville, diventa casuale, di una convivenza ottusa che cede il posto a una terribile connivenza, quella del non sense.  La domenica affollata da borghesi cartonati, il museo di storia dove gli antenati trasfigurano in un residuo di tempo irreversibile, via Tournebride così mascherata da vita da sembrare insopportabile, il caffè Mobly dove il protagonista si reca nelle sue ore libere, è un covo di ipocrisie e fallimenti umani.  È un dramma per Roquentine, che per professione ricostruisce il passato: scoprire progressivamente che l’operazione di ripristino appare del tutto priva di senso dal momento che ciò che non insiste, e il passato ormai non può più farlo, non esiste.

 Del tutto simile a uno stato di malinconia, e questo il titolo originario del romanzo, Melancholia, preso in prestito dall’ opera di Durher, l’esistenza dei personaggi e di Roquentin, ombreggia nell’insignificanza. Tutto appare di troppo, e la scoperta del se come un essere di troppo sconvolge Roquentin e tutto il suo complesso di relazioni con gli altri: ogni rapporto umano è destinato a macchiarsi di nausea. È la stessa Bouville a sfiorire nella sua meschina ordinaria vita di provincia. Forse la musica, forse la letteratura, forse la scrittura, possono salvare Roquentin. Ma il lettore, travolto dal suo flusso di coscienza che non lascia speranze, per un attimo attende quell’incontro, fra Roquentin e la sua antica amante, Anne, come l’ultimo approdo prima di un naufragio. Le pagine scorrono in attesa di quell’ ultima possibilità di rianimare un cuore svigorito. Morto lo scrittore, il cittadino borghese, l’amico civilizzato, non resta che far resuscitare un amante. Ma Anne non è dissimile da un cappello borghese, nero e sformato, obbediente all’aria malinconica di una qualunque domenica decadente…

La Logica del Cuore di Emilia Testa

Il mio desiderio è racchiuso
nell’impronta del tuo indice
se fallisci
l’esercizio lento e intenso
di alcuni movimenti
IO CADO
e tu ti spegni

                                                         Emilia Testa

Emilia Testa ha una penna coriacea. Vuol dire temprata nel cuore da una forza forte, testarda e tenera al contempo. La sua silloge poetica La logica del cuore è una resa dei conti: impatta con l’ultimo degli dei ancora in gara, nella competizione al disarmo dell’uomo, Amore. E non c’è alcuna versione ingenua o fiorata. È l’amore che induce alla schisi, alla frontiera del senso, allo sconvolgimento della rappresentazione cartesiana.

L’autrice intesse un dialogo con il tremendo cuore di Eros, e da subito ne individua il carattere centrifugo del suo essere sempre Altrove. La questione del decentramento è estremamente contemporaneo, una ripresa in termini moderni di un archetipo vintage: l’amante e la sua irriducibile distanza dall’oggetto di amore. Proprio in l’Amore è sempre Altrove, che dà l’incipit alla raccolta, Emilia Testa ci rivela il carattere utopico del sentimento, il suo soggiorno in un senza luogo, che dà forma al desiderio.

Proprio nel de sidera, l’amore trova per l’autrice il suo compimento: lontano dalle stelle, nella tradizione dal latino, il de-siderio allude proprio alla regola aurea di ogni sentimento, per la quale non sia possibile l’annullamento dello spazio che intercorre fra gli amanti, pena il decadimento stesso del desiderio. L’autrice avverte chiaramente il dislocamento di senso e di spazio dell’amore, nel quale accade che resti ma non ci sei, come si legge in Ci sono Amori: l’utopia del desiderio è un ineffabile atto di sparizione del sé dove, leggiamo ancora l’Autrice, lo spazio del confinamento è messo in scacco matto dalle sue linee di fuga. Proprio in Sopravvivenza cogliamo il ruolo salvifico della poesia: essa raccorda gli umori, quasi liquefandoli lungo i bordi rappresi di inchiostro una materialissima sopravvivenza di me.

Struggente Esercizi di Fantasia, in cui l’Autrice rivela il carattere mobile dell’epifania di Amore, sempre troppo altrove, che fra ombre della sera e i memoriali poetici di Kafka e Montale, può finalmente rivelare il nome. Ma è tutto, un alone: questa la sola apparizione possibile, sotto forma di alito impresso o di una versione di se stessi, che mi fa più orrore.

La poetessa conosce bene, senza sconti, quanto costi un amore utopico:

Sarò per sempre sostanza impercettibile, arresa al battito metafisico della mia zona d’ombra, in bilico, con scarpe di cartone, sul filo spinato di questa mia disforica utopia.

Un vero proclama poetico, questa strofa dissacrante, potente, magnetica: in Metamorfosi si sta compiendo il passaggio di stato, da vigile creatura a zona d’ombra, nella consapevolezza che le suole sono effimere, e che il suolo è scomposto. Ciò che resta è una utopia schizofrenica, disforica appunto, che sposta sempre di là da venire, il senso e l’accadimento di un ospite inatteso, nella consapevolezza che la felicità sia più un attributo che sostanza: è un dramma della grammatica quella che si compie in Il perimetro di un amore, perché ciò che ci rende felici non ha la forza di una permanenza, è percettivo e aleatorio come qualunque qualificazione secondaria. Implacabile verità che l’autrice, ossidata nella sua poesia espressiva, rivela con un tratto rapido, incisivo, irreversibile:

Il mio desiderio è racchiuso nell’impronta del tuo indice se fallisci l’esercizio lento e intenso di alcuni movimenti IO CADO e tu ti spegni. Proprio quel de-siderio, l’essere lontani dalle stelle, si materializza nel cono d’ombra della caduta. Brillante esempio lirico di un fallimento annunciato.

Ma la poetessa non ha ancora detto la sua ultima parola. È nella terza sezione che chiude la silloge poetica,

Dell’amore e dei suoi amabili resti, che il senso del resto e dello scarto, del residuo e della traccia mancante, si fa radiosa toppa e falce di ferro. Il resto si fa amabile resto di niente e in esso si racchiude la più bella delle dimenticanze: il consenso dato al tempo, di passare.

 

 

È sempre domenica

È un romanzo di formazione, È sempre domenica.

 

Un percorso di ricostruzione della propria identità che il protagonista affastella, raccogliendo con enormi borse di ricordi le piastrelle della sua esistenza scrostata.

Una formazione ben lontana dal codice di genere letterario tradizionale, dunque, che definirei altamente deformata, e performante: lo sviluppo del personaggio è increspato dalla sua stessa coscienza ipertrofica, attentissima a evidenziare il fatto sbagliato, la verità muta, la tradizione ridicola; ricordare non accresce la sua conoscenza, piuttosto la annebbia. E tuttavia si diventa ciò che si è, direbbe Nietzsche, proprio nell’accettazione della propria divergenza.

Il protagonista è un uomo qualunque, reduce da una separazione con una donna a tratti asfittica come il bianco che insegue nello yogurt e nelle bambole di porcellana: una donna per la quale la vita è una semplice pratica dello yoga che stira i muscoli ma perde il ritmo degli altri; il rapporto coniugale è una sfaldatura, è una piccola linea anaffettiva che non porta alcun spessore del colore e resta bianco. Cosi lei, rinchiusa nel centro del suo ileo ipseos, è descritta dall’autrice come i ventuno grammi – tale il peso dell’anima -, dell’incomunicabilità coniugale. Lui, invece, è una creatura rumorosamente ferma, nel plastico ondulato delle scene che la sua mente riprende, a cui ritorna con tenerezza maniacale di chi non si arrende allo scherzo del tempo. Commenta con tragico sorriso – quello delle maschere greche, per intenderci – la mostra itinerante di imprevisti e accomodamenti che è la sua vita. Viene da Sud che si somiglia tutto, quanto a misconoscimenti dell’origine. Ci sono misteriosi impasti nella cucina della sua infanzia, e misture di affetto e trascuratezza nelle donne della sua famiglia, vecchie dee taumaturgiche che guariscono tutti tranne che loro stesse: una, ancora viva, sua madre, sta nella dimenticanze delle cose, in una casa di cura che non cura ma lentamente lascia che il passato deflagri, e la cancelli tutta, nella sua vestaglia dai colori diversi.

Due direzioni opposte, quelle di madre e figlio, quest’ultimo afflitto da una sindrome opposta e contraria: la malinconia dell’abisso e dell’utero materno e marino. Sprofondare nel liquore degli occhi dei vecchi, nelle esalazioni aromatiche e defunte dei vecchi pasti del passato, riattingere alle antiche mura di castelli per neonati in cui l’adulto al massimo può solo inserire una unghia. Fino a rompersela. Ecco il suo progetto di formazione alienante.

E se sua madre “cambia i nomi alle cose”, lui non cede alla permanenza del doloroso. Non rinuncia a essere quella metà del banco, che il suo compagno di classe aveva accuratamente vivisezionato, fra alzate di diari e righelli a squadri: ogni campo, dal banco alla vita, è quello di una contesa, e in gioco sta il proprio spazio, l’azione di movimento, e l’intenzione. Lui è un reduce della regola della metà, si vive a metà come si dovrebbe, si spera, morire a metà, mai del tutto, mai davvero, mai per sempre, come nel gioco che faceva da bambino, del “facciamo che una volta muori tu e una volta io”.

Ma le cose non stanno così. L’irriducibile è maledettamente personale, il dolore non va diviso ma mantenuto integro, e personale.

Lentamente le cose prendono forma: si accede al non detto e il protagonista si fa proprietario dell’evacuazione, legittimo possessore della traccia che manca. Finalmente tocca con mano l’espugnata materia del suo dolore, la ragione della sua malinconia per sempre. Finalmente si accendono luci e non sono quelle dei pulsanti di accensioni di elettrodomestici della casa coniugale: tempo e spazio ora sono scanditi dagli occhi, nel loro spegnersi, nella loro resistenza alla fine. Non più affidata all’etere casalingo, la risoluzione del silenzio è … nel silenzio stesso.

Il protagonista è una scusa, un anemone, un inchiudibile fiore che non ci sta, a perdersi le stelle. Resta spalancato, come una bocca addolorata, sulla storia della notte.

La sua domenica è sempre il giorno sbagliato ed esatto allo stesso tempo, la sfida al calendario, la strategia del ricorsivo contro l’assenza che avanza. Lui è tutte le sue donne del romanzo, coriacee e spaccate come le montagne mutilate che se ne stanno in cielo a mostrare i tagli senza fiori. Invincibili e disumane creature di resistenza.

La scrittura della Graziano è quella che non ti aspetti e che quasi mai sei pronto a ricevere: è il gesto di uno scavatore inclemente che ossida la materia, fa assemblaggio di cose deposte in giardini multietnici dove ogni specie scaduta si mette a esistere senza competizione. La storia di questa parola pretesa, ossessiva e tenera, restituisce una muffa armonica che promette ripopolamento e dice fino alla fine, che non è ancora fine. Leggere il suo romanzo è una guerra di punti di sutura: la scrittura è il montaggio compulsivo di organi, senza anestesia: si avverte tutto il dolore del bisturi e del filo che corre ossessivo lungo i nervi, i centri vitali, le correnti d’aria. Che riannoda le cose e le fa brillare, di malinconia.

 

 

Un percorso di ricostruzione della propria identità che il protagonista affastella, raccogliendo con enormi borse di ricordi le piastrelle della sua esistenza scrostata.

Una formazione ben lontana dal codice di genere letterario tradizionale, dunque, che definirei altamente deformata, e performante: lo sviluppo del personaggio è increspato dalla sua stessa coscienza ipertrofica, attentissima a evidenziare il fatto sbagliato, la verità muta, la tradizione ridicola; ricordare non accresce la sua conoscenza, piuttosto la annebbia. E tuttavia si diventa ciò che si è, direbbe Nietzsche, proprio nell’accettazione della propria divergenza.

Il protagonista è un uomo qualunque, reduce da una separazione con una donna a tratti asfittica come il bianco che insegue nello yogurt e nelle bambole di porcellana: una donna per la quale la vita è una semplice pratica dello yoga che stira i muscoli ma perde il ritmo degli altri; il rapporto coniugale è una sfaldatura, è una piccola linea anaffettiva che non porta alcun spessore del colore e resta bianco. Cosi lei, rinchiusa nel centro del suo ileo ipseos, è descritta dall’autrice come i ventuno grammi – tale il peso dell’anima -, dell’incomunicabilità coniugale. Lui, invece, è una creatura rumorosamente ferma, nel plastico ondulato delle scene che la sua mente riprende, a cui ritorna con tenerezza maniacale di chi non si arrende allo scherzo del tempo. Commenta con tragico sorriso – quello delle maschere greche, per intenderci – la mostra itinerante di imprevisti e accomodamenti che è la sua vita. Viene da Sud che si somiglia tutto, quanto a misconoscimenti dell’origine. Ci sono misteriosi impasti nella cucina della sua infanzia, e misture di affetto e trascuratezza nelle donne della sua famiglia, vecchie dee taumaturgiche che guariscono tutti tranne che loro stesse: una, ancora viva, sua madre, sta nella dimenticanze delle cose, in una casa di cura che non cura ma lentamente lascia che il passato deflagri, e la cancelli tutta, nella sua vestaglia dai colori diversi.

Due direzioni opposte, quelledi madre e figlio, quest’ultimo afflitto da una sindrome opposta e contraria: la malinconia dell’abisso e dell’utero materno e marino. Sprofondare nel liquore degli occhi dei vecchi, nelle esalazioni aromatiche e defunte dei vecchi pasti del passato, riattingere alle antiche mura di castelli per neonati in cui l’adulto al massimo può solo inserire una unghia. Fino a rompersela. Ecco il suo progetto di formazione alienante.

E se sua madre “cambia i nomi alle cose”, lui non cede alla permanenza del doloroso. Non rinuncia a essere quella metà del banco, che il suo compagno di classe aveva accuratamente vivisezionato, fra alzate di diari e righelli a squadri: ogni campo, dal banco alla vita, è quello di una contesa, e in gioco sta il proprio spazio, l’azione di movimento, e l’intenzione. Lui è un reduce della regola della metà, si vive a metà come si dovrebbe, si spera, morire a metà, mai del tutto, mai davvero, mai per sempre, come nel gioco che faceva da bambino, del “facciamo che una volta muori tu e una volta io”.

Ma le cose non stanno così. L’irriducibile è maledettamente personale, il dolore non va diviso ma mantenuto integro, e personale.

Lentamente le cose prendono forma: si accede al non detto e il protagonista si fa proprietario dell’evacuazione, legittimo possessore della traccia che manca. Finalmente tocca con mano l’espugnata materia del suo dolore, la ragione della sua malinconia per sempre. Finalmente si accendono luci e non sono quelle dei pulsanti di accensioni di elettrodomestici della casa coniugale: tempo e spazio ora sono scanditi dagli occhi, nel loro spegnersi, nella loro resistenza alla fine. Non più affidata all’etere casalingo, la risoluzione del silenzio è … nel silenzio stesso.

Il protagonista è una scusa, un anemone, un inchiudibile fiore che non ci sta, a perdersi le stelle. Resta spalancato, come una bocca addolorata, sulla storia della notte.

La sua domenica è sempre il giorno sbagliato ed esatto allo stesso tempo, la sfida al calendario, la strategia del ricorsivo contro l’assenza che avanza. Lui è tutte le sue donne del romanzo, coriacee e spaccate come le montagne mutilate che se ne stanno in cielo a mostrare i tagli senza fiori. Invincibili e disumane creature di resistenza.

La scrittura della Graziano è quella che non ti aspetti e che quasi mai sei pronto a ricevere: è il gesto di uno scavatore inclemente che ossida la materia, fa assemblaggio di cose deposte in giardini multietnici dove ogni specie scaduta si mette a esistere senza competizione. La storia di questa parola pretesa, ossessiva e tenera, restituisce una muffa armonica che promette ripopolamento e dice fino alla fine, che non è ancora fine. Leggere il suo romanzo è una guerra di punti di sutura: la scrittura è il montaggio compulsivo di organi, senza anestesia: si avverte tutto il dolore del bisturi e del filo che corre ossessivo lungo i nervi, i centri vitali, le correnti d’aria. Che riannoda le cose e le fa brillare, di malinconia.

 

Anime Sospese

Una delle esperienze più suggestive che resterà per sempre nel mio vivo cuore: la magnifica stesura di una sceneggiatura cinematografica, in collaborazione con Giuseppe Pantuliano, tratta da un mio racconto "Le belle di notte", con la recitazione dei magnifici ragazzi del Liceo Alfano I, la regia e la produzione di TeleDiocesi di Salerno.

La colonna sonora del film è la dolcissima opera di Giuseppe De Rosa che qui vi linko. Buon ascolto!